L’aria è stata pesante con il caldo appiccicoso di una sera di agosto. Fili di luci, immobili nella placidità, illuminano una striscia incandescente attraverso il buio. C’era una luna crescente, ma la luce non era abbastanza forte da raggiungere la terra dove la gente sedeva su coperte e sedie pieghevoli.
Sul un piccolo palcoscenico improvvisato nell’erba, un terzetto di giovani musicisti jazz ha cominciato a suonare. La compagnia, anonima nell’ombra, accennava un ritmo, battendo leggermente le dita delle mani e dei piedi. La cantante si è avvicinata al microfono. Dietro e sotto, il rumore del traffico è sbiadito. Le facciate di pietra e argilla della città medievale brillavano di un bagliore rossastro, gettando via il calore del giorno. I campi e le colline oltre la città scivolarono nelle oscurità.
Sono comparsi dalle ombre, muovendosi lentamente e appoggiandosi così vicini che nel buio sembrassero essere una persona. Le loro silhouette erano unite, gli spigoli sfocati come se fossero stati ammorbiditi dal tempo. Erano vestiti di nero, e camminavano con gli occhi abbassanti. Le loro teste si toccarono. Non hanno mai parlato. Non sembrava esserci bisogno. Una mano pallida tremava sulla curva del bastone. I loro gomiti erano intrecciati, la chiusura forte, nata da una vita insieme.
Si sono fermati per osservare il concerto e la gente. Poi, senza una parola, hanno continuato lungo il percorso. La notte prese fiato e si apri per lasciarli passare. Sono svaniti, il loro mondo ancora intatto, ininterrotto dalla presenza di stranieri. Questa sera era lo stesso di quelle migliaia che sono venute prima e quelle poche che verranno dopo.
Mi chiedevo, cosa significhi vivere così lungo con qualcuno per cui le parole non contano più? Mi chiedevo, come ci si sente ad amare cosi semplicemente e profondamente che la vita senza l’altro sia inimmaginabile? Mi chiedevo, quando uno muore, rimane solo una mezza persona?